Platone e il concetto di tonalità



Quando si parla di tonalità, infatti, si indica un vero e proprio di fondamento del linguaggio musicale, che ha la sua origine nel mondo greco: ai tempi di Platone, la musica era considerata una metafora dell’ordine insito nella natura. ‘Noi non facciamo musica’, diceva il filosofo, ‘la troviamo. La realtà ci sembra rumorosa, ma nel rumore si nasconde un’armonia essenziale che ci fu concessa dalle Muse’.
La musica è una specie di medicina, un’ alleata per infondere ordine e armonia in quel ciclo dell’anima nostra che venisse a trovarsi in noi discorde e inarmonico: la bellezza dell’accordo di Do maggiore è il riflesso della sua vibrazione razionale, che può ispirare una parallela razionalità dentro di noi. Platone prendeva sul serio il potere dell’arte: credeva che solo ‘pitch’ musicali consonanti conducessero al pensiero razionale, cioè quando la passione agisce in direzione della ragione. Sfortunatamente, ciò significa zittire sistematicamente tutte le note e gli schemi dissonanti, perché la dissonanza turba lo spirito. Le emozioni sono pericolose. Nella sua repubblica immaginaria, la musica è severamente bandita.
In questa concezione, Platone era figlio di Pitagora. Per i pitagorici il mondo dei suoni era determinabile unicamente in base al rapporto matematico degli intervalli e dunque differenziavano in tal modo tra intervalli consonanti e dissonanti, ritenendo la musica alla base dell’educazione, per la sua capacità di ‘curare l’indole e gli affetti degli uomini, e di ricondurre all’armonico equilibrio originario le forze dell’animo’. Aristosseno di Taranto per primo si oppose a questa concezione, affermando che si doveva operare una ‘scelta’ percettiva nel rapporto fra suoni, distinguendo cioè gli intervalli consonanti da quelli dissonanti in base al ‘giudizio’ dell’orecchio. Con la nascita del concetto di armonia, e la stabilizzazione della tonalità con il temperamento equabile nel Seicento, si fissa il linguaggio musical entro i limiti ben saldi di dodici tonalità fissate sui dodici semitoni che dividono l’ottava: ma è qui che inizia il dramma tra campo diatonico e campo cromatico, che segna l’introduzione dell’elemento irrazionale e psicologico in quello razionale e matematico. E’ il passaggio dall’oggettività del Settecento alla soggettività dell’Ottocento.

Non possiamo iniziare a parlare di musica moderna senza introdurre il contesto sociale e culturale dei primi del novecento. L’individuo era stato il centro motore dell’arte nel romanticismo in fiore: e l’individuo rimane il centro dell’arte moderna, assicurando un’indubbia continuità. Ma è un individuo mutato: è un individuo tormentato da dubbi e problemi, povero di fede nei grandi ideali, minato dall’amara consapevolezza di essere avviato verso la rinuncia e il fallimento. Il canto dei romantici era stato un canto a gola spiegata, il canto dei moderni è cauto, diffidente: il cervello ha preso il dominio sul cuore. Ma chi vuol concludere da queste premesse una decadenza dell’arte moderna, sbaglia, perché porta un giudizio estetico sulla materia umana dell’arte, anziché rivolgere la sua attenzione su quella sintesi di forma e materia, che è l’arte. La musica romantica aveva il suo pericolo nella retorica, e lo evitava con la sincerità del sentire: la musica moderna ha il suo pericolo: l’aridità, e lo evita grazie a quel senso di amara consapevolezza che l’individuo ostenta delle proprie limitazioni, grazie alla sincerità crudele della conoscenza di se stesso. A questo complesso di note psicologiche per cui si è passati dalla romantica esaltazione dell’individuo alla moderna crisi dell’individuo, la musica del nostro tempo ha dato, in molti casi, un’espressione artistica perfetta, modificando rapidamente, rivoluzionando, il proprio vocabolario e la propria sintassi. E’ proprio la rapidità e la radicalità dei mutamenti, necessaria a cogliere ed interpretare sfumature psicologiche sempre più raffinate e sottili di stati d’animo d’eccezione, ha prodotto la così detta scissione del pubblico dall’arte moderna: di fatto è avvenuto che l’artista ha reso talmente sottili e quintessenziati i propri sentimenti, che essi non possono più essere della massa: l’artista diventa il souffre-douleur, l’elemento cui la massa ha delegato il doloroso incarico della consapevolezza e dell’esame interiore.

Sotto l’azione di queste forze interiori la musica si trasformò: l’armonia vide accentuarsi il moto delle voci melodie: le modulazioni partenti dalle voci centrali la sospinsero verso l’alto e verso il basso e, caricandone sempre più la tensione interiore, ne provocarono l’esplosione. Sulla linea del cromatismo wagneriano di Tristano si iniziano già a compromettere i rapporti fondamentali dell’armonia classica: è infatti il 10 giugno 1865, la sera della prima del ‘Tristano e Isotta’ di Wagner: bastano pochi secondi di ascolto del Preludio dell’Atto I per accorgersi di un accordo scandalosamente estraneo all’orecchio romantico, accordo che dunque non per nulla viene ricordato come Tristan akkord, fulmine a ciel sereno, squarcio alla tradizione, inizio dell’inevitabile dissoluzione del campo tonale.






E’ proprio quell’accordo che qualche tempo dopo un altro artefice della musica moderna, Claude Debussy, parodizza e prende in giro nel suo Golliwog’s Cake Walk: accordo a cui ora il nostro orecchio si è già abituato e che non suonerà così scandaloso come al pubblico di quel giugno 1985. L’accordo è inserito all’interno di un’arte eclettica (Debussy scoprì presto il realismo e la ricchezza coloristica dell’opera russa), esprime quel clima poetico, raffinato e decadente, che in Francia si era venuto a creare da Baudelaire in poi.

Debussy libera la musica dalla tirannica influenza wagneriana, opponendo alla magniloquenza di quell’arte il culto della raffinatezza minuta e preziosa, dell’agile eleganza. La sua arte si sforza di cogliere sensazioni preziose ed evanescenti, profumi, riflessi, ebbrezze sottili e momenti instabili della natura: perciò rifiuta ogni prefisso schema formale, ogni regola costituita di composizione, ogni obbligo di regolari modulazioni. Le armonie più nuove e strane si giustappongono senza preparazione, secondo ciò che suggerisce la momentanea ispirazione, i ritmi si moltiplicano, la voce declama liberamente il testo. Le prima parte dell’opera di Debussy è stata battezzata come ‘impressionismo musicale’: ma dopo Pelleas et Melisandre (1902) si accosterà nuovamente a un senso classico della costruzione e della forma, passando a colori più vivi, marcati e a un disegno più preciso che si nota negli schizzi sinfonici come La mer (1905).

E’ dunque nella Parigi del '900 che inizia la trasformazione della musica: in un momento in cui la musica francese aveva raggiunto una ricchezza e un’altezza quali non aveva mai conosciuto, si inserisce l’esperienza e l’arte di Claude Debussy, che, per l’audacia e la ricchezza delle sue innovazioni, viene spesso chiamato il padre della musica moderna.
Nonostante il simbolismo quasi letterario e pittorico dei suoi titoli, nonostante le aspirazioni descrittive della sua musica, Debussy fu il primo musicista moderno che rendesse alla musica qualcosa della sua autonomia, elemento ricercato, in seguito, dalle più recenti tendenze artistiche.

Anche la scrittura orchestrale inizia a modificare in relazione alla generale trasformazione del linguaggio: si è assottigliata e snellita, si ricerca ora la purezza dei timbri strumentali, e l’appropriatezza perfetta della frase alla natura dello strumento. Evidente che i promotori di queste innovazioni musicali siano entrati in una polemica nel complesso incauta contro l’Ottocento: contro le intrusioni letterarie della musica, contro il pittoricismo dei poemi sinfonici, contro la confusione delle arti, i musicisti insorsero innalzando polemicamente le bandiere della ‘musica pura’, musica oggettiva, nuovo realismo, e via dicendo. Stanchi di ispirarsi alle aurore e ai tramonti, alle glorie patrie o ai giardini sotto la pioggia, i musicisti vollero provare a cercare ispirazione dai suoni, cioè dalla materia stessa della loro arte. Si dissero: vediamo un po’ cosa succede a mettere insieme una tromba, un violino e un pianoforte: scombussoliamo la comune scala diatonica con le sue 24 tonalità, scriviamo insieme due e più melodie in diverse tonalità, facciamo musica che si adatti a queste nuove premesse sonore e ne tragga origine e legge. Gli strumenti d’orchestra vennero considerati uno per uno, nelle loro singole proprietà, non più aggruppati nelle tradizionali famiglie, come stimoli attivi dell’ispirazione e non inerti veicoli del pensiero musicale. Questo fu, in sostanza, la musica così detta d’avanguardia: sperimentale, tecnicistica, che si svolse nei primi trent’anni del nostro secolo.

Ma, se i pittori nel '900 erano impegnati a scoprire l’astrazione, la musica era già astratta. Se i poeti stavano celebrando il simbolismo, la musica era simbolica da sempre. Il compositore moderno era intrappolato nel passato: la rivoluzione doveva iniziare con un atto di distruzione. Come aveva affermato Wagner quando si era imbarcato nel suo violento rinnovamento dello stile musicale: ‘la vera opera d’arte non può essere creata adesso, si può solo preparare, sì, con mezzi rivoluzionari, distruggendo, abbattendo tutto quanto merita di essere distrutto e abbattuto’.